Corviale, Cavalli al confine
Ho intravisto il cavallo
ritto e fermo sul prato
affiancato ad un altro
orientato all’inverso
– il passaggio a livello
era levato – un bianco
e un nero nell’incastro
che sbarra il mondo perso.
(Toti Scialoja, “Le sillabe della Sibilla”)
Entrando a Roma dalla Portuense, all’altezza di Corviale, sui prati che dalla collina scendono verso la strada, due cavalli fanno avanti e indietro, pascolando senza sosta sotto quel lungo palazzo di cemento che segna il confine della città e che, come Giano, rivolge il suo profilo all’alba e al tramonto di ogni giorno.
Due cavalli senza cavalieri, come Castore e Polluce sulla cordonata del Campidoglio, ma senza Castore e Polluce, perché questo è il luogo dei senza, è il confine di un tempo sospeso; due simpatici ronzini che sembrano usciti dal film di Brancaleone alle Crociate.
Quello che sembra il più vecchio è legato ad una lunga corda che gli impedisce, forse, di arrivare in strada se mai dovesse trovare un varco nella recinzione, ma allo stesso tempo gli consente di raggiungere ogni punto del terreno.
L’altro si aggira vicino al cartellone pubblicitario con le offerte di uno dei tanti supermercati della zona e alla fermata dell’autobus, pronto con la testa a cercare una carezza o chissà, forse, qualcosa di più gustoso da mettere sotto i denti.
E le macchine intanto sfrecciano sulla Portuense, verso il mare o dirette al centro, passando in quel luogo di confine dove credi che la città finisca, mentre lì invece ricomincia
per migliaia di volte, con ponti
e labirinti, cantieri e sterri,
dietro mareggiate di grattacieli,
che coprono interi orizzonti.
(Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo)
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