La lupa e l’aquila del Campidoglio
Tutti conoscono la leggenda della nascita di Roma, di quella lupa che allattò i due gemelli scesi lungo il Tevere dentro una cesta arenatasi nei pressi del Velabro. Quella lupa, nei secoli, è diventata il simbolo stesso della Città eterna e in particolare sul Campidoglio la troviamo raffigurata più volte. Ma oltre a quella famosissima conservata nei Musei Capitolini, e quella posizionata sulla scalinata laterale del Palazzo Senatorio, fino agli anni Settanta sul colle ce n’era una in carne ed ossa.
Il 28 agosto 1872, infatti, il Consiglio comunale di Roma, presieduto dal Sindaco Pietro Venturi, decise di posizionare dentro ad una gabbia appositamente costruita, sul fianco sinistro della cordonata, una vera lupa, stabilendo anche le spese per il suo mantenimento, che erano di 23,50 lire al mese. Fu assunto anche un custode al quale fu messa a disposizione una dimora poco distante.
Trilussa nella poesia intitolata appunto “Lupa romana” ne ricollega l’ingabbiamento fisico a quello storico, richiamando quell’ideale di romanità della quale si era impossessato il regime fascista:
Er giorno che la Lupa allattò Romolo
nun pensò né a l’onori né a la gloria:
sapeva già che, uscita da la Favola,
l’avrebbero ingabbiata ne la Storia.
(Lupa romana, Acqua e vino)
Divenne da subito una grande attrazione, specialmente per i più piccoli che si fermavano a guardarla mentre senza pace si muoveva in quella piccola gabbia. E questo suo continuo movimento avanti e indietro, senza sosta, fu l’origine del modo di dire “me pari la lupa der Campidojo”, con cui a Roma si apostrofa una persona impaziente e ansiosa, che non riesce a stare ferma.
Nel 1935, come testimonia una copertina illustrata della Domenica del Corriere, la lupa venne spostata in una nuova gabbia sulla rupe tarpea.
A far compagnia alla lupa, in una gabbia poco distante, venne aggiunto un altro simbolo di Roma, anche questo vivo: l’aquila. Due animali che ancora Trilussa fece dialogare nella poesia L’Aquila romana:
“L’antra matina l’Aquila romana,
che ce ricorda, chiusa ne la gabbia,
le vittorie d’un’epoca lontana,
disse a la Lupa: — Scusa,
ma a te nun te fa rabbia
de sta’ sempre rinchiusa?
Io, francamente, nu’ ne posso più!
Quanno volavo io! Vedevo er monno!
M’avvicinavo ar sole! Invece, adesso,
così incastrata come m’hanno messo,
che voi che veda? l’ossa de tu’ nonno?
Quanno provo a volà trovo un intoppo,
più su d’un metro nun arivo mai… —
La Lupa disse: — È un volo basso assai,
ma pe’ l’idee moderne è puro troppo!
È mejo che t’accucci e stai tranquilla…”
nun c’è che l’animale forastiere
che vié trattato comme un cavajere
e se gode la pacchia d’una villa!
L’ultimo Pappagallo de la Mecca,
appena arriva qua, se mette in mostra,
arza le penne e dice: Roma nostra …
E quer che trova becca.
Viva dunque la Scimmia der Brasile!
Viva la Sorca isterica
che arriva da l’America!
Nojantri? Semo bestie da cortile.
Pur’io, va’ là, ciò fatto un ber guadagno
a fa’ da balia a Romolo! Accicoria!
Se avessi da rifà la stessa storia
invece d’allattallo me lo magno!”.
Erano simboli, ma rimanevano pur sempre animali che soffrivano quei luoghi angusti; negli anni Quaranta l’aquila venne tolta dalla sua gabbia, lasciando sola la lupa. Nel 1954 all’indomani della morte di un esemplare di appena tre anni, si pensò di interrompere quella tradizione in seguito all’appello lanciato da un cittadino inglese residente a Roma, Marian Johnson, al Times, che venne ripreso dal Messaggero e sostenuto anche dal Giardino zoologico e dall’Ente nazionale Protezione animali.
Ma non bastò, perché il sindaco di allora, Salvatore Rebecchini, si limitò ad allargare un po’ la gabbia e fece sostituire l’esemplare morto con un giovane lupo maschio.
La lupa der Campidojo rimarrà lì fino agli anni Settanta, andando avanti e indietro, osservando turisti e romani e dividendo il pasto con i gatti randagi della Capitale, all’insegna del Volemose bene!
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