Rosario Livatino a Corviale, intervista al card. Montenegro
Dalle massime istituzioni del Paese a Corviale: il viaggio delle reliquie e della memoria del beato Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”, martire della lotta alla mafia, ucciso a 38 anni il 21 settembre 1990 e beatificato Il 9 maggio 2021, è arrivato fino all’estrema periferia di Roma, all’interno del palazzo lungo un chilometro.
Siamo proprio all’inizio di quello che tutti conoscono come “Serpentone”, nel luogo dove da 30 anni la Fraternità dell’Incarnazione ha scelto di abitare, insieme a donne e uomini, giovani e anziani, bisognosi come tutti quelli relegati ai margini della società, soprattutto di giustizia e carità cristiana, proprio i principi che hanno segnato la vita di Rosario Livatino.
A portare a Corviale la testimonianza sul primo magistrato beato della storia della Chiesa, l’Arcivescovo emerito di Agrigento Francesco Montenegro.
“È una figura che è giusto che sia conosciuta perché può parlare a tutti – ci ha detto il card. Montenegro – quello che colpisce di Livatino è la sua coerenza, di fede e di vita, ha creduto e non ha svenduto la sua fede, mai in nessuna occasione. Era un uomo che ha saputo guardare in alto e questo l’ha portato a saper guardare in basso e attorno: in tribunale ha dato una testimonianza di grande fede. Ha saputo mettere insieme sul tavolo il diritto penale e il Vangelo e questo lo ha mostrato anche con gli imputati, trattandoli da esseri umani”.
“Il processo di beatificazione – ha continuato – si è svolto in due tempi: nella prima parte sono venute fuori le sue virtù, mentre nella seconda è venuta fuori la sua coerenza di fede che l’ha portato ad essere proclamato martire della fede, sullo stesso piano degli altri martiri, con un servizio particolare alla giustizia. E qui viene fuori questa sua grandezza: aver saputo mettersi a servizio dello Stato e della comunità. Uno degli assassini disse “lui lavorava per tutti, per i giovani, lavorava anche per me”. Questo è l’aspetto bello della fede: il fatto che il cristiano sia luce per tutti e non una lampadina accesa per alcuni.
Una sigla ricorre nei suoi appunti: STD. “Questo è il sunto e il senso della sua vita di fede – spiega il cardinale Montenegro – Il significato di quella sigla era Sub Tutela Dei, sotto lo sguardo di Dio, sotto la sua protezione: quello che faccio lo faccio con Dio e per Dio. Il servizio, il lavoro, la professione diventano un gesto di fede, lo spazio dove incontro Dio. In un intervento disse: Il giudice deve scegliere e scegliere non è facile, ma il giudice quando sceglie prega. Dunque il suo servizio è una liturgia, una liturgia da laico”.
Nei giorni del pellegrinaggio delle reliquie di Livatino abbiamo assistito a due fatti quasi contemporanei che raccontano due facce diverse e opposte della terra di origine del giudice: l’arresto di Matteo Messina Denaro e il funerale di Biagio Conte.
“La fede unisce sempre – dice il cardinale – crea comunione, mi fa scoprire che l’altro non è l’estraneo messo vicino a me ma il fratello con cui faccio famiglia. L’interesse della mafia è tutt’altro: la mafia non vuole che io scopra l’altro come fratello ma possibilmente nemico; la mafia divide, crea dipendenza, cerca interessi. Mentre nella fede pratichiamo la condivisione, la mafia vuole la povertà perché in questo modo può continuare a tenere i fili. Ecco perché sono all’opposto, l’uno e l’altro. Il mafioso ha bisogno di rivestirsi di Dio, il Dio sulla terra per dire: ci sono io. Noi non abbiamo bisogno di rivestirci di Dio: Dio si è fatto come noi e ci dice: ‘tu sei grande per questo’, non con la potenza e la prepotenza”.
Giovanni Paolo II, quando il 9 maggio 1993 nella valle dei templi ad Agrigento pronunciò il suo storico discorso gridando ai mafiosi: ‘Convertitevi! Un giorno arriverà il giudizio di Dio!’, fu in qualche modo influenzato dalla morte del giudice. Come racconta il cardinale Montenegro: “L’incontro che ebbe con i genitori di Livatino lo scosse. Quella giornata fu una giornata particolare per lui. Non era il papa normale, a qualcuno sembrò scontroso, non più diretto come normalmente era. In molti si chiesero: che cosa abbiamo fatto? Tutto si capì nel momento della celebrazione e in quel grido che tutti ricordiamo”. Ci ha accompagnato in questo incontro la reliquia che il cardinale ha portato a Corviale: un piccolo grumo di sangue che si staccò dalla camicia di Livatino quando questa venne riposta. “Le reliquie – conclude il cardinale Montenegro – non fermano mai lo sguardo del credente ma sono quel cartello stradale che indica da che parte guardare. Se io dovessi bloccarmi alla reliquia e perdere di vista colui a cui appartiene, perderei un appuntamento importante. La reliquia è un oggetto ricco di significato ma niente di più, ho bisogno di scoprire una persona che mi faccia vedere e diventi vetrina di Dio per me che forse ho difficoltà di incrociarlo e di incontrarlo. Questo è il servizio del santo in una comunità di uomini”.
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