Suor Agostina Pietrantoni, martire della carità
“O Fratelli! O Sorelle! Poesia dovrebbe essere il nostro discorso! Parola che cede al silenzio la pienezza ineffabile del suo significato”. Iniziò con queste parole Paolo VI, il 12 novembre 1972, l’omelia per la beatificazione di suor Agostina Pietrantoni, uccisa il 13 novembre 1894 nell’ospedale Santo Spirito in Sassia a Roma.
La sua storia – continua Paolo VI – “suscita un’ammirazione e una commozione talmente forte da superare la capacità espressiva del linguaggio ordinario, e narrando una storia, che pare leggenda, tanto è semplice, limpida, pura, amorosa, e alla fine tanto è dolorosa e tragica, anzi, ancor più, tanto è simbolica, la parola vorrebbe farsi canzone, come quella che lascia intravedere il profilo di una fanciulla innocente, di una vergine candida e taciturna, di una sposa votata all’Amore assoluto, d’una donna forte, che fa dono della propria vita alla carità dei poveri e degli infermi, d’una vittima inerme del proprio quotidiano eroico servizio, paga che a soli trent’anni si compia il suo intimo voto di fare della propria vita martirio a Gesù, testimonianza a quanti hanno occhi per vedere, cuore per comprendere, a noi, dunque, a noi tutti”.
Il 13 novembre 1894, dunque, nell’ospedale Santo Spirito, il più antico di Roma e uno dei più antichi d’Europa, una piccola sorella dei poveri fu uccisa per mano di un pregiudicato malato di tubercolosi, Giuseppe Romanelli, lì ricoverato.
Tre giorni dopo, al suo funerale, Roma si fermò per rendere omaggio a questa donna che aveva speso se stessa nel servizio ai sofferenti. Come raccontano le cronache pubblicate quel giorno sul Messaggero, fu un evento eccezionale: «Fin dall’una di pomeriggio le adiacenze dell’ospedale di Santo Spirito e tutte le strade per le quali si credeva dovesse passare il corteo erano affollate di gente a segno di rendere difficoltosa la circolazione». Migliaia di persone erano assiepate ai bordi delle strade, pronte a inginocchiarsi al passaggio della salma. «E non era la solita lunga fila di soldati allineati, la folla dell’ufficialità dai colori rari e smaglianti» – scriveva il cronista del Tempo – ma «il popolo tutto; era la Roma del popolo; era la gentile, caritatevole santa Roma che dava l’ultimo saluto a colei che, sacrificando palpiti, pensieri, vita si era data angelicamente alla carità, al sollievo dei miseri».
Sul carro funebre, anche la corona di fiori della comunità israelitica, sulla quale c’era scritto: «Alla martire della carità». Dietro il feretro, si unì in processione il direttore dell’ospedale, il professor Achille Ballori, lo stesso che appena insediato, qualche anno prima, fece cacciare dal Santo Spirito i 37 padri concezionisti che curavano l’assistenza spirituale; fece inoltre togliere i crocifissi e le immagini sacre, e alle suore rimaste fu fatto divieto di pregare in pubblico, parlare di Dio agli ammalati, e proporre loro i conforti religiosi. Erano gli anni dell’anticlericalismo aperto e ostinato; sulla porta della corsia dei malati di tisi campeggiava la scritta: «Libertà di coscienza».
Seconda di undici figli, Livia – questo il suo nome di battesimo – veniva da un paese della Sabina, Pozzaglia, e aveva conseguito solo la licenza elementare: le difficoltà economiche della famiglia l’avevano presto condotta lontana dai banchi di scuola. La sua formazione religiosa era stata quella del catechismo e delle poche letture spirituali che orecchiava dal nonno, alimentata dalla recita del Rosario e dalla partecipazione alla messa.
La vocazione venne quasi per caso, con la visita in paese di uno zio, fra Matteo, che intuì la sua disposizione e scrisse per lei una lettera di presentazione alle Suore della Carità di santa Giovanna Antida Thouret. All’ospedale Santo Spirito suor Agostina iniziò il suo servizio nella corsia dei bambini, per poi spostarsi nel reparto degli adulti, dove le suore dovevano spesso sopportare insulti, oscenità e impedimenti di ogni genere. La loro era una testimonianza silenziosa.
Nel 1889 contrasse una malattia infettiva che la portò a un passo dalla morte, ma guarì, tra la meraviglia dei medici. Gli ultimi cinque anni della vita li trascorse in corsia in mezzo ai malati di tubercolosi, in un silenzio riempito di gesti di carità. Passava ore al capezzale dei moribondi, donando parole di conforto e di pace.
La mattina del 13 novembre l’assassino l’attese in un corridoio buio che portava verso la dispensa. Tre colpi alla spalla, al braccio sinistro e alla giugulare, prima che potesse rendersi conto di ciò che accadeva. Poi il pugnale colpì il petto. Le sue ultime parole, udite da un testimone, furono: «Madonna mia, aiutami».
All’autopsia, il professor Ballori, constatando che non vi erano contrazioni di nervi o di cuore che indicassero qualsiasi sforzo di reazione, dichiarò che «Suor Agostina si è fatta scannare come un agnello».
I numerosi casi di guarigioni scientificamente inspiegabili dovute all’intercessione di suor Agostina, portarono, nel dopoguerra, all’apertura della causa di beatificazione e alla canonizzazione, che avvenne il 18 aprile 1999. In quella occasione, San Giovanni Paolo II nell’omelia sottolineò come l’ideale evangelico della carità verso il prossimo, specialmente verso i piccoli, i malati, gli abbandonati, condusse Agostina Livia Pietrantoni alle vette della santità. È nel volto dei più bisognosi – aggiunse papa Wojtyla – che brilla il volto di Cristo. “Tu amerai”, il primo e fondamentale comandamento posto all’inizio della “Regola di vita delle Suore della Carità”, fu la fonte ispiratrice dei suoi gesti di solidarietà e la spinta interiore che la sostenne nel dono di sé agli altri.
Il 20 maggio 2003, con un decreto della Congregazione per il culto divino e i sacramenti, è stata proclamata “Santa Patrona degli Infermieri d’Italia”. L’auspicio espresso dall’allora Cardinale Vicario Camillo Ruini che ne diede l’annuncio, era “che tutti gli operatori del mondo sanitario riconoscano in Santa Agostina una figura ispiratrice e una testimone esemplare per la loro professione. Ricorrendo alla sua intercessione – proseguì Ruini – potranno trovare sostegno e aiuto nel loro impegno al servizio degli ammalati”.
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