L’Arco di Settimio Severo, dal 203 a Vacanze romane
Milleottocento anni fa, (203 d.C.), il Senato di Roma innalzò nel Foro un Arco di trionfo in onore dell’imperatore Settimio Severo, in occasione del decimo anno dell’ascesa al trono, e dei suoi figli Caracalla e Geta, a ricordo delle vittorie sui Parti in Mesopotamia. Era un arco a tre fornici riccamente decorato con scene di battaglia e sormontato da una grandiosa quadriga in bronzo trainata da sei cavalli con le statue, anch’esse in bronzo, dell’imperatore e dei suoi figli.
Con la caduta dell’impero romano e poi del regno dei Goti, Roma iniziò una nuova trasformazione: i suoi monumenti, le architetture, i templi, l’intero palazzo del Palatino, caddero in abbandono, furono spogliati di tutte le ricchezze e in parte vennero riutilizzati. Su molti di quei luoghi nacquero chiese e chiostri: Roma, che era stata la capitale del mondo, si apprestava a diventare la città santa dell’umanità.
Nel VI secolo fu edificata sui Rostri, accanto all’arco, la chiesa dei SS. Sergio e Bacco, il cui campanile fu innalzato proprio su uno dei fornici. In quell’area un tempo destinata ai comizi, fu tenuta l’ultima assemblea popolare di cui abbiamo notizia, tenuta nei giorni che seguirono la morte di papa Paolo I. In quella occasione, era il 1 agosto del 768, il primo funzionario della Chiesa, una sorta di Segretario di Stato, Cristoforo, convocò lì, nella zona del Foro detta in tribus Fatis, il clero e il popolo di Roma, presentando la candidatura del presbitero Stefano.
Nel corso del Medio Evo tutta quella zona si riempì di torri e campanili e l’intero sistema difensivo in mano alla famiglia dei Frangipane prese il nome di Campo Torrecchiano. L’Arco di Settimio Severo era il centro di un sistema viario che collegava San Pietro al Laterano, a Santa Maria Maggiore, al Quirinale, al Pincio e ai quartieri meridionali della città.
Il tempo passava anche visivamente, strato sopra strato, come una grande clessidra, e a poca distanza uno dall’altro si andavano ad affiancare diversi piani di calpestio.
Nel 1520 Leone X cominciò a liberare la zona dalla terra e dai detriti che si erano accumulati, riuscendo a rendere agibile il fornice centrale. Tra il 1559 e il 1565, durante il pontificato di Pio IV, fu demolita la chiesa dei SS. Sergio e Bacco, mentre nel 1636 fu demolita la torre; i fornici per tutto il Settecento furono occupati da botteghe. Qui Goethe arrivando dal Campidoglio e diretto al Colosseo, conclude il suo viaggio in Italia, descrivendo il suo stato d’animo attraverso le parole che Ovidio, nell’elegia Tristia, scrisse rievocando con commozione la sua ultima notte nell’Urbe prima di partire per l’esilio a Tomi, l’attuale Costanza, sul mar Nero. Era, come allora, una notte di plenilunio e l’arco di Settimio Severo stava di fronte a Goethe “cupo nella cupa ombra che proiettava”; sopra la solitudine della Via Sacra i monumenti così noti al suo occhio apparivano in una luce insolita, spettrale.
Cum subit illius tristissima noctis imago,
Quae mihi supremum tempus in Urbe fruit;
Cum repecto noctem, qua tot mihi cara reliqui;
Labitur ex oculis nunc quoque gutta meis.
Iamque quiscebant voces hominunque canumque;
Lunaque nocturnos alta regebat equos.
Hanc ego suspiciens, et ab hac Capitolia cernens.
Quae nostro frustra iuncta fuere Lari.
Quando risorge in me la tristissima immagine di quella notte
che fu l’ultima ora a me concessa in Roma,
quando rivivo la notte in cui lasciai tante cose care,
qualche lacrima ancora mi scorre dagli occhi.
E già le voci degli uomini e dei cani tacevano;
e la luna alta nel cielo reggeva i cavalli notturni.
Io la guardavo lassù, e poi guardavo i templi capitolini, che inutilmente furono vicini al nostro Lare.
Nel 1803 Pio VII fece abbattere le strutture che erano addossate all’arco iniziando quell’opera di liberazione che Giuseppe Gioacchino Belli, in un sonetto composto nel 1831, raccontò così:
Quello che te viè in faccia mezzo nero
quanno se’ appiede de la cordonata
è l’arco lui de Settimio s’è vero,
ché pò esse che sii ’na buggiarata.
Oh vedi che crapiccio de pensiero,
vedi si ch’idea matta sconsagrata,
de nun annallo a frabbicallo intiero,
ma co una parte mezza sotterrata!
E nun t’hai da ficcà ner cucuzzolo
ch’io te viènghi qui a dì ’na cosa sciapa
e a datte ’na stampella pe mazzolo.
Me l’aricordo io che nun sò rapa
che prima se vedeva un arco solo,
e l’antri dua ce l’ha scuperti er Papa.
Nel 1895, attraverso l’opera di Giacomo Boni fu consolidata e restaurata la facciata che guarda verso il Foro, venne riparato il selciato di copertura dell’arco, vennero risistemati due grandi blocchi della cornice dell’attico e si consolidarono le colonne. Era pronto per essere immortalato, 60 anni dopo, in uno dei film più conosciuti al mondo, e che più di tutti ha contribuito a far aumentare il fascino e la voglia di Roma soprattutto negli americani: Vacanze romane. Qui Gregory Peck incontra Audrey Hepburn stordita e all’apparenza ubriaca, distesa e quasi addormentata su un muretto. Era notte, come quella notte di Ovidio e Goethe ma questa volta non viene raccontato un addio, ma l’inizio di una storia anche questa immortale.
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